Per concludere l’iniziativa relativa a COP-26, la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, in Fondazione Minoprio è stato organizzato un incontro con un esperto di ghiacciai, il dr. Andrea Monti; laureato in Scienze Ambientali, fa parte del Servizio Glaciologico Lombardo, un’organizzazione scientifica di 60 operatori volontari che, nel 1992, ha iniziato a monitorare la variazione annuale dei ghiacciai lombardi.
Il dr. Monti ha avuto la fortuna di avere uno zio alpinista che, all’età di otto anni, lo ha portato in cima al Monte Cevedale, alto più di 3700m, al confine tra Lombardia e Trentino – Alto Adige, e qui è avvenuto il suo primo contatto con i ghiacciai.
Le tematiche che si sono trattate hanno riguardato l’attività dell’SGL, le cause della perdita di superficie glaciale con una finestra sul cambiamento climatico e il futuro dei ghiacciai lombardi rispetto alla situazione che stiamo vivendo oggi.
Nell’Ottocento, quando ci si è resi conto che i ghiacciai cambiavano aumentando la loro massa e ingrandendosi, tanto da raggiungere villaggi, alpeggi, pascoli e vie di comunicazione, si iniziarono a effettuare monitoraggi con l’appena nata fotografia. Nel corso degli anni, Università ed enti di ricerca hanno investito tanto in questo settore, innovandolo tecnologicamente, ma la fotografia (ormai aerea grazie all’utilizzo dei droni) è ancora uno degli strumenti più usati per il confronto fra il “prima” e il “dopo”.
L’incontro è iniziato con la proiezione del Monte Rosa al tramonto: la sua parete est guarda sulla Pianura Padana ed è l’unica montagna che, avendo un dislivello di 2000m, è considerata himalaiana, perché sulle Alpi e sugli Appennini non ne esistono di simili. Neanche in Austria, Francia e Svizzera.
Si è passati, poi, al ghiacciaio dell’Adamello, il più esteso d’Italia e alto 3500m, il cui elemento principale è il lago con i suoi boschi e le rocce affioranti. Un ambiente in cui c’è molta vita e che ci appartiene, perché viviamo a contatto con i laghi e ne traiamo delle risorse.
Il ghiacciaio è una massa di neve al di sopra del ghiaccio e della roccia ed è altamente popolato di animali, tra cui aracnidi che si nutrono degli insetti che si depositano sul ghiaccio, trasportati dal vento.
Si forma con l’accumulo della neve invernale che non fonde in estate. La stagione invernale dei ghiacciai è molto più lunga rispetto alla nostra e va da quando incomincia a depositarsi neve (settembre – ottobre) a quando smette (maggio – giugno), ma tanto dipende dalla quota a cui si trova il ghiacciaio. I vari strati permettono di determinare l’età della neve che è rimasta sul ghiacciaio e che non si è sciolta durante la stagione estiva.
Il ghiacciaio si differenzia dal nevaio, perché sul ghiacciaio avviene la metamorfosi dei cristalli di neve, che cambia di consistenza e di forma, passando dall’essere neve all’essere ghiaccio. Salendo di quota dove fa più freddo, la neve si conserva maggiormente e comincia ad accumularsi, subendo la forza di gravità e cominciando a scendere a valle.
Su un ghiacciaio è possibile distinguere due parti:
-la parte bassa costituita dalla neve che si fonde in estate e che scende verso valle;
-la parte alta costituita dalla neve che si è accumulata durante l’inverno.
La presenza dei crepacci ci fa capire che il ghiacciaio è vivo e si muove; la loro assenza, invece, è indice del contrario perché lo slittamento verso il basso si è arrestato e il ghiacciaio non è più attivo.
I ghiacciai fanno parte della criosfera, ovvero la sfera delle masse ricoperte di ghiaccio. La maggior parte della superficie ghiacciata si trova in Antartide (13.500.000 kmq); l’Europa ha 53.000 kmq di superficie ghiacciata, concentrata in Islanda e nelle isole Svalbard, tra la Norvegia e il Polo Nord. In Italia, la Valle d’Aosta è seguita dalla Lombardia, con i suoi 73 kmq di ghiacciai, di cui i tre “giganti” sono l’Adamello, i Forni e la Fellaria. Questi ricoprono il 41% della superficie glaciale regionale. Vi sono altri ghiacciai molto più piccoli: alcuni superano i 2 kmq, come il Cedec, ma la maggior parte è inferiore a 0,5 kmq, come il ghiacciaio del Lupo.
Negli ultimi anni, l’estensione glaciale si è ridotta in maniera notevole ma, a causa dei costi troppo elevati, vengono fatte rilevazioni solo su una cinquantina di ghiacciai lombardi, di cui si riesce a monitorare direttamente sul posto o tramite fotografie il 90% della superficie
Tecniche di rilevamento
Esistono diverse tecniche di rilevamento, dalle più semplici alle più sofisticate, per capire quanta neve si è accumulata nel corso dell’inverno.
I primi di giugno si scavano delle buche e si comincia a misurare la stratigrafia della neve attraverso l’analisi della densità.
Solo così è possibile fare la media dei dati e capire se l’annata è andata bene o male.
Durante l’inverno del 2022 non ha nevicato e si è registrato quasi un 80% in meno di neve caduta sui ghiacciai. Quindi se c’è poca neve all’inizio dell’estate il bilancio finale della massa totale sarà negativo.
Inoltre, possono essere usate le palline ablatometriche, bastoni graduati infilati dentro il ghiaccio; quando si ritorna l’anno successivo, è possibile misurare quanto il ghiaccio sia slittato verso il basso.
Con questa strumentazione, è possibile fare una media di tutti i dati forniti dalle palline ablatometriche sparse su tutti i ghiacciai della Lombardia. In questo modo si può stimare la quantità di acqua rilasciata dai ghiacciai. Il 2022 è stato l’anno in cui è avvenuta una perdita d’acqua altissima, un dato molto rilevante.
In Lombardia, annualmente, si perdono circa 1.5 metri di altezza dei ghiacciai, ma nel 2022 la media è stata 3.5 metri.
Per misurare l’arretratezza dei ghiacciai, si può anche prendere un punto fisso, ad esempio un sasso, tirare la bindella e calcolare quanto è andato indietro, confrontandolo con la misura dell’anno precedente.
L’SGL possiede foto del ghiacciaio della Ventina a partire dal 1895, quindi ha modo di vedere come si è comportato il ghiacciaio per oltre 100 anni. Da quella data, si registra una perdita di metri variabile: inizialmente accettabile, tra gli anni ‘40 e ‘50 è diventata significativa, per arrivare al presente con una perdita di massa molto più veloce, circa 100 metri.
Un altro metodo di rilevamento, molto più preciso, sfrutta il gps e un’antenna: si cammina sul ghiacciaio nella posizione esatta dei rilevamenti passati e si calcola la differenza fra i diversi tracciati.
Ogni anno perdiamo pezzi di ghiacciaio che l’anno successivo non si possono più creare e ciò significa che, a parità di condizione climatica, si ha meno acqua rispetto all’anno precedente.
In totale quest’anno ci sono stati 250 milioni di metri cubi d’acqua rilasciati dai ghiacciai: quasi 250 milioni di bottiglie di acqua. Facciamo un passo indietro per capire meglio. Se quest’annata terribile si fosse registrata 10 anni fa, avremmo avuto una differenza di 48 milioni di m3. Il lago di Montespluga, vicino al passo Spluga, è un lago di 32 milioni di m3, vuole dire che noi in 10 anni abbiamo perso una volta e mezza il lago di Monte Spluga, una diga costruita più di 100 anni fa per regolare il consumo di acqua. È come se in 10 anni avessimo perso una diga e mezzo.
Costruire una diga è un lavoro oneroso e costa tanto anche il mantenimento e il personale specializzato che la pulisce per evitare che si intasi e opera controlli periodici per evitarne il cedimento.
Ghiacciai che stanno scomparendo
Dal 1850 (anno dell’ultima espansione glaciale) ad oggi, il ghiacciaio del Bernina era un unico ghiacciaio formato a sua volta da diversi ghiacciai che nei punti più alti si congiungevano. Il numero dei ghiacciai presenti non è importante perché in questo caso inizialmente era un solo ghiacciaio, oggi ne contiamo 8. L’informazione che invece ci serve è la sua estensione perché si è ridotto del 54%; l’Adamello, che era disseminato di crepacci, oggi conta un foglio spesso 100 metri, perdendone 60 in 18 anni; il ghiacciaio Ventina si è ritirato di 100 metri abbondanti soltanto quest’anno. Il ghiacciaio Pizzo Tresero che, in soli 30 anni, si è appiattito perdendo tutti i suoi crepacci.
Il caso Fellaria
Anche del ghiacciaio Fellaria occidentale è stato perso tutto, mentre della parte orientale, nel 2007 è stata scattata una fotografia che mostra una massa glaciale che ad un certo punto trova una farisea rocciosa a 200 metri e, non avendo più la roccia a sostenerla, crolla; una volta staccatasi, il ghiacciaio è destinato a durare poco, infatti al di sotto si è venuto a formare un lago.
Per studiare questo ghiacciaio è stata installata una macchina fotografica che ogni 30 minuti, ogni giorno, scatta una foto in time-laps su una torretta. Dopo qualche mese dall’installazione, Monti e la sua equipe sono andati a controllare come andava e l’hanno trovata capovolta, a causa del crollo di una falesia di ghiaccio molto alta, che ha formato uno tsunami, ovvero un’onda anomala che ha abbattuto il treppiedi. Dal 2019 al 2022 è diminuito di 25 metri in altezza, il che non è poco.
Dei circa 203 ghiacciai presenti, nel ’90 – ‘91 si è perso oltre il 38% della loro superficie; il 54% dal 1850. Ogni anno si perdono mediamente 1,6 km2 di ghiacciai (pari a 220 campi da calcio), ma si parla di estinzione o morte non quando masse di ghiaccio si distaccano in Groenlandia, ma quando l’ultimo cm2 di questo non fonde.
Il cambiamento climatico
Fermo restando che i ghiacciai sono naturalmente soggetti a trasformazioni, quelle degli ultimi anni sono state decisamente anomale. Un tempo, tutta l’alta Lombardia, compresi il Lago di Como e Minoprio (che era sulla fronte del ghiacciaio), erano costituiti da un unico grande ghiacciaio, in cui confluivano tutti quelli dell’Adda e della Valtellina.
Le trasformazioni sono dettate da movimenti astronomici del pianeta Terra. Infatti, carotando il ghiaccio, si trovano delle bolle d’aria inglobate nel momento in cui vi è stato il passaggio da neve a ghiaccio. Analizzandole, si riesce a risalire alla composizione atmosferica e alla temperatura dell’aria, anche di 400.000 anni fa. Le variazioni di questa si verificavano ogni 100.000 – 120.000 anni, con innalzamento della temperatura e conseguente discesa.
Le fonti di calore sulla Terra sono 2: il calore geotermico e, soprattutto, il Sole. Dunque, se la Terra varia la sua inclinazione, varia anche il calore che questa riesce a ricevere; dunque varia anche la sua temperatura. L’andamento della CO2 segue quello della temperatura. Da fine ‘800, il mondo della chimica ha affermato che tale gas è in grado di trattenere la temperatura; ne consegue che temperatura e CO2 vanno di pari passo.
Dalla fine dell’ultima glaciazione, invece, le temperature oscillano di circa 1ºC, rispetto agli 8ºC – 10ºC del periodo precedentemente preso in considerazione. Questo potrebbe essere dovuto all’attività solare e all’attività vulcanica; infatti, i vulcani emettono ceneri che si diffondono su tutto il globo, riflettendo la luce solare e facendone giungere meno sul pianeta.
Negli ultimi 100 anni invece, siamo passati da circa 200 – 300 ppm di CO2 a 400 ppm a causa di fattori naturali (eruzioni vulcaniche) o antropici (emissioni di gas serra, deforestazione e consumo del suolo). Se la CO2 non fosse aumentata così tanto negli ultimi anni (da 1,3ºC a 2ºC), vivremmo periodi più freschi e i ghiacciai non arretrerebbero.
Purtroppo, i problemi non si fermano qui. Bisogna considerare anche frane, alluvioni, terremoti, siccità, innalzamento degli oceani, migrazioni, carestie, disboscamento, guerre, epidemie.
Questo non è un futuro lontano, ma un presente concreto che si dirige verso l’ignoto.
Negli ultimi 40 anni, le variazioni di temperatura sono state estremamente rapide.
Un grafico rileva le proiezioni di temperatura nel caso in cui intervenissimo o meno a livello internazionale e presenta diversi scenari possibili:
nel primo si riducono le emissioni così da avere un aumento della temperatura di circa 2°C in più rispetto all’età pre-industriale; nel secondo, non si apporta alcuna modifica e la temperatura sale di 4°C in più rispetto all’età pre-industriale.
Inoltre, potrebbero verificarsi dei fenomeni chiamati “feedback collettivi” che amplificherebbero o ridurrebbero l’effetto della causa originale. Significa che, nel caso concreto, i terreni del Canada e della Siberia, che sono ghiacciati da millenni, fondendosi formeranno terreni pieni di acqua simili a paludi, ambienti ideali per i batteri che cominceranno a emettere metano, uno dei gas serra più potenti.
Questo vuol dire che non sapremo quale sarà l’effetto quando si scioglierà il permafrost. Quei 4°C potrebbero diventare 6 – 8 entro il XXII secolo, non tra 400 anni.
Le generazioni future ne saranno testimoni. Stiamo andando verso qualcosa di negativo da cui rischi di non uscirne più.
Da tempo si conoscono queste cose. Siamo arrivati all’ultima possibilità per prendere un’altra direzione.
Paradossalmente è una buona notizia sapere che questo cambiamento non è naturale, ma dipende da noi. Purtroppo, individualmente, qualsiasi cosa facciamo emettiamo CO2: produrre carne, vestiti, mangiare frutta fuori stagione che arriva dall’altra parte del mondo, usare la macchina per brevi spostamenti. I governi, però, possono permettere un cambio di rotta che sia collettivo.
Se ciò non dovesse accadere, l’Adamello smetterà di esistere, perderemo il ghiacciaio più grande d’Italia e anche gli altri della Lombardia, entro fine secolo, non ci saranno più.
I ghiacciai rappresentano una risorsa idrica fondamentale, sono degli ecosistemi unici ricchi di biodiversità e, non meno importante, rendono meraviglioso il paesaggio naturale.
A noi la scelta.
De Micheli Alessia
Donegana Andrea
Ferri Alessandro
Panfilio Andrea
Proietti Giorgio
Torturo Alessio
Prof.ssa D’Alessandro Daniela
Fotografie SGL Dr. Monti Andrea